Intervista a Roberto Baldazzini, “un feticista dell’immagine”

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Scrive Moebius su Roberto Baldazzini: “Non si conoscono ancora i limiti dell’immaginario in materia di sessualità. La letteratura ha una tradizione e anche una bibbia nella persona del divino Marchese, e la prosa sadiana, benché arcaica, ha tutto il vigore di una pianta capace di fornire un’ombra maestosa.
Quanto alle altre arti, sono per lo più ai primi balbettii, ancora imbrigliate nel corsetto delle censure. Il fumetto da parte sua beneficia di una sorta di impunità, lato buono della scarsa considerazione in cui viene tenuto, ed è fin troppo lunga la lista degli artisti che ci hanno tuffato nei diversi inferni della perversione.
Ma ecco apparire Roberto Baldazzini, padrone di una tecnica grafica imperiale, nutrita di mille referenze plastiche, certo, però del tutto originale nella rappresentazione del mondo. Di un’originalità che stona nell’universo del fumetto, spesso e volentieri melodrammatico, perché qualsiasi ricorso al controllo del segno implica anche severità e rigore.
Ed ecco che questo verbo-atomo si mette al servizio di una visione fantasmatica, senza freni di sorta, ma priva pure di qualsiasi collera, di qualsiasi colpevolezza e direi perfino di qualsiasi tormento.
Ci troviamo in un mondo sessuale di una serenità che ci prende la gola, come di fronte allo spettacolo di un paradiso non perduto, ma non ancora trovato. Baldazzini è un angelo, che ci lascia intravedere il sogno accecante dei nostri desideri.”

Stefano Ascari ha intervistato Roberto Baldazzini al Circolo Ribalta a Vignola, qui riportiamo parte dell’incontro.

Quando hai iniziato ti sei pensato capace di essere un autore celebrato non solo in Italia ma anche all’estero, meritandoti una prefazione così entusiasta da parte di un maestro come Moebius?

Quando lessi questa prefazione, nel ’97, mi stupii che un grande artista del fumetto mi sottolineasse in questo modo. Forse allora non avevo ancora quella capacità di valorizzare quello che facevo, per cui rimasi stupito che un personaggio così importante fosse un mio fan. E forse lo è stato più lui nei miei confronti che non viceversa.
Credo di aver iniziato a quattordici anni a pensarmi un disegnatore di fumetti: il momento in cui ho  pensato che il fumetto potesse essere la chiave di interpretazione della realtà, attraverso il disegno e il racconto. Erano gli anni ’70, non c’erano né scuole né la possibilità di incontrare i maestri, né Internet. Sono stato un autodidatta e quello che mi ha alimentato è stata la passione, un grande desiderio di apprendere e di sperimentare, anche a livello pittorico, di ricerca visiva. Ho sperimentato di tutto fino a quando è nato uno stile personale.

Soprattutto agli esordi quello del fumettista è un mestiere un po’ cannibale: quali erano i fumetti che leggevi, le immagini che hanno  nutrito il tuo immaginario?

La televisione non aveva quella potenza, quella presenza che ha oggi: come tutti mi sono alimentato delle immagini delle pubblicazioni a fumetti. La carta stampata forse rappresentava la maniera più appetibile per sognare, per restare coinvolti in viaggi immaginifici. Ho avuto la straordinaria fortuna di frequentare dall’età di dieci anni il negozio di fumetti usati di Vignola di Salvo Franciosi: dopo aver acquistato fumetti, li cambiavo, li vendevo, con pochi soldi sono riuscito a vagliare tutte le uscite di fumetti in uscita. Tra quelli che mi hanno impressionato di più ci sono gli americani di Harold Foster, il Principe Valiant, o l’Alex Raymond di Flash Gordon. Ho letto molto anche Tex, ma poi ho spaziato in altre direzioni.
Considero un maestro Magnus, con Kriminal, Satanik, Alan Ford, per l’impatto visivo, la semplicità del bianco e nero, le narrazioni, i testi di Bunker in un connubio di testo e disegno magnifico. Satanik è stato per me la chiave di volta per provare sensazioni adulte, di terrore, di disagio, di orrore, di piacere perverso, in qualche modo.

Cos’ha significato per te entrare “alla corte del fumetto” in quegli anni, nelle riviste d’autore nella loro stagione più florida?

All’inizio degli anni ’80 ho pubblicato su Orient Express la prima storia a puntate dell’investigatore Alan Hassad su testi di Daniele Brolli. In una prima fase mi sono concentrato su storie di carattere investigativo: le atmosfere alla Marlowe andavano per la maggiore, elementi gialli si trovavano in molte arti narrative. Era esploso in Italia il fumetto d’autore, rappresentato attraverso riviste e storie a puntate, poi pubblicate in volume. Questo periodo è durato fino alla metà degli anni ’90.
Anche il fumetto popolare si è evoluto nel tempo, dando sempre maggior spessore a personaggi e contenuti.
Il fumetto d’autore ha permesso agli autori di esprimersi sulle riviste di riferimento, con storie a puntate e storie brevi, un’ottima palestra di inizio.
Questa prima storia con Brolli fu subito pubblicata in Francia, dove viene molto apprezzato uno stile di linea chiara, i colori piatti, l’ambientazione anni ’50. In Italia invece dominava il chiaroscuro bonelliano e il bianco e nero, ottenuto con i tratteggi.

“Alla corte del fumetto” ma non solo: il tuo stile, molto riconoscibile, è a cavallo tra fumetto e illustrazione. Hai lavorato anche nella pubblicità: che cosa ha significato per te addentrarti in questo filone, non scontato nel percorso di un fumettista?

Negli anni ’80 con un gruppo di autori colleghi e amici (Igort, Mattottti e altri) ho fondato il gruppo Valvoline. Abbiamo introdotto nel fumetto le nostre vene artistiche e le nostre suggestioni di carattere artistico, attraverso tecniche, immaginari e citazioni. Io, con l’utilizzo del retino, del bianco e nero o o della semplicità di introduzione dei colori, mi sono affiancato a Roy Lichtenstein: che a sua volta ha tratto ispirazioni dal fumetto per la propria arte. Ho attinto dalla pop art tutta una serie di messaggi: l’alimentare, la moda, mi colpiscono queste immagini pubblicitarie, e ancora di più quelle degli anni ’50, ’60, che ho spesso reinterpretato nel mio stile. Il fumetto è stato uno strumento per raccontare quelle storie, l’immagine invece è il piacere per interpretare la realtà. Questo piacere viene forse più fuori nell’illustrazione che dal fumetto, anche se dedico cura alla vignetta come ne dedico a un’illustrazione.

Com’è stato lavorare nell’ambito della comunicazione pubblicitaria, anche a livello nazionale, chiudendo il cortocircuito con il pop?

Mi ha spinto il desiderio di aprirsi ad altre tecniche, ad altri di comunicare. Alcune tra le più importanti riviste di moda di Condé Nast hanno invitato alcuni autori con influenze artistiche particolari – come me e Mattotti – a dare un’interpretazione personale di quel mondo. La campagna nazionale della Tim che ho fatto nel 1997 è stata molto importante. La Telecom ha scelto di contrapporre all’immagine Omnitel l’immaginario pop espresso dal mio stile, facendo sì che il messaggio pubblicitario penetrasse attraverso il mio segno, che parlava all’immaginario condiviso. Queste esperienze sono state arricchenti, ma ho cercato di mantenere lo spazio per il fumetto d’autore.

Satanik: orrore e piacere, erotismo e provocazione. Come questi elementi sono arrivati a maturazione nel tuo stile?

Già a quattordici anni desideravo disegnare bene il corpo femminile. Cosa che mi è venuta facile solo molti anni dopo. I primi personaggi erano a carattere maschile.
Il primo personaggio femminile è del ’85, Stella Noris: qualcosa che finalmente cominciava ad appagare il gusto di raccontare una storia tra il drammatico e il giallo, in un immaginario anni ’50. A quell’epoca Igor mi diceva che io vedevo in bianco e nero come i cani: per almeno vent’anni non ho usato il colore, affascinato dal cinema classico.

Cos’ha significato essere un autore d fumetti erotici in Italia?

Dopo sono arrivate storie più morbose sempre in stile anni ’50 ma che lasciavano vedere di più. Nulla di hard, è stato un passaggio molto lento. Solo quando ho incontrato Francesco Coniglio, editore della rivista Blue, mi sono trovato con nel cassetto molte storie di carattere erotico.
In Italia il fumetto erotico e porno è nato in formato pocket, tra i primi c’era Isabella, Iacula, sui temi dell’avventura. Dalla metà degli anni ’70 è esplosa la pornografia e anche i fumetti hanno seguito questo filone, dove hanno fatto gavetta moltissimi autori. Però importava solo la raffigurazione del corpo femminile, il resto era disegnato senza cura, senza qualità.
Io invece ho cercato di sublimare tutto un immaginario molto fetish e bizzarro. Miei punti di riferimento sono stati Stanton, Eneg, Betty Page. Mi sono ancorato a un background culturale molto particolare, per fare cose molto hard. Sono rimasto su Blue fino alla sua chiusura nel 2009. Ho pubblicato in Francia, negli Stati Uniti. In Italia, dato che il fumetto è tenuto in poca considerazione, anche quello erotico non ha scandalizzato.

Come cambia il panorama tra l’Italia e l’estero?

In Francia la censura è stata molto più attiva nel mondo del fumetto (e non solo). Quando sono approdato in Francia negli anni ’80 prima ho lavorato con grandi case editrici, ma non sul fumetto erotico. Poi è avvenuta una rivoluzione: l’eros oggi lo puoi trovare in libreria, come qualsiasi altro volume. Negli USA invece i libri cartacei erotici non si vendono più, è diventato tutto digitale.

Come riesci a raccontare questo mondo in modo, come dice Moebius, pacifico, sereno?

Credo di aver rappresentato cose anche molto forti, ma il mio stile è elegante e sdrammatizza il contenuto. Disegnare certi temi per me ha rappresentato una sfida e una provocazione. Moebius è rimasto colpito dai miei personaggi di Casa Howhard: che è un gioco di parole con il titolo del bel film di Ivory Casa Howard. La situazione dell’ambiente chiuso è quella che mi affascina di più. I personaggi sono tutte bellissime donne con il pene, e Moebius trovava che l’ermafrodita fosse una rappresentazione quasi astrale. In effetti è un mondo astratto, dove i personaggi si danno piacere, di continuo.

Come si riesce a lavorare sulla figura della donna nel fumetto erotico senza scivolare in una dinamica sessita? Anzi, attribuendo a ogni personaggio un’identità specifica?

Più che “usare” l’immagine, ne rimango affascinato. Ho un archivio enorme di fotografie che utilizzo come scheletro: quella postura, quell’atteggiamento. Quando facevo il Dams c’era un corso di Rabitti sul linguaggio del corpo come comunicazione non verbale. Sono rimasto colpito dal fatto che sono i particolari, i dettagli ad avere una grande importanza. Mi interessa la ricerca, non ripetere sempre la stessa rappresentazione. Anzi, ora sto tornando a dei personaggi maschili. Ho attraversato immaginari e credo di aver fatto un percorso interiore attraverso il mio lavoro.

L’ultimo lavoro con Dionnet per la Dargaud: tutt’altro genere, più metafisico. Cos’ha rappresentato per te?

Jean-Pierre Dionnet è un grande del fumetto francese, tra i fondatori di Métal Hurlant nel ’75. È un visionario. Con “Des Dieux et des Hommes” voleva raccontare la storia dell’America in 30 volumi, dal 1929 al 2147 – ma la cosa si è fermata prima. Mi sono trovato a lavorare sul momento, lui scriveva dei pezzi e io disegnavo: una grande libertà che mi ha un po’ spaesato, ma che mi ha fatto crescere ancora, superare uno scoglio. Ne sono molto contento.

Ora sei su un progetto ancora inedito, “Il mio nome è Alfredo”: in boschi innevati e splendidi, la Resistenza. È una virata abbastanza brusca: come nasce e cos’è?

L’ho fatto leggere  a diverse persone e ho ricevuti molti suggerimenti: gli autori hanno bisogno di aiuto per esprimere tutto il potenziale. Sono tre anni che ci lavoro, e quello che mi piace di questo progetto sulla Resistenza è che mi sono mosso sul territorio, conoscendo persone che mi hanno aiutato ad arrivare ad un racconto. È una sintesi narrativa che parte dall’8 settembre ’43 e segue diversi personaggi, utilizzando testimonianze dirette o indirette. Indagare il mio territorio e confrontarmi con le esperienze di questa terra mi ha entusiasmato. Mi piacerebbe creare un laboratorio permanente dedicato al fumetto che racconta storie sulla Resistenza, penso che il fumetto possa raccontare al meglio certi tipi di esperienze storiche e drammatiche.
Quello che trovo importante è che il mio lavoro riesca a crescere con la mia umanità.
Sto anche realizzando un fumetto su una cantante francese e dei saggi sulla musica con Francesco Coniglio, che mi ha proposto di sfruttare il mio archivio (come “Sexirama”, sul cambiamento dell’immagine della donna sulle copertine). Ho in preparazione un volume sui fotoromanzi erotici dal 1960 al 1982.

 

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